Nonna Rosina, zio Mario

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A differenza di quel che ho sentito dire, anche ora che sono passati degli anni da quando non ci sono più, ricordo bene il viso di nonna e posso come sentire il pizzico del suo neo che mi pungeva quando la baciavo. Ricordo l’odore di dopo barba sulla pelle scura e tonica di zio Mario e sorrido se penso agli scherzi che gli facevo. Come si arrabbiava quando gli cambiavo la frequenza della radio spesso accesa e lui di fianco, concentrato ad ascoltare mazurche e a cantare le canzoni in dialetto che mi facevano ridere. Intere mattinate a infilare una cassetta dopo l’altra nel mangianastri. Aveva sempre voglia di giocare o teneva il broncio. Mi diceva, ven’ quà! E se mi acchiappava moriva dal ridere mentre mi teneva lì con quelle sue mani così forti, una forza incredibile. Ah quan’ t’angappo! Rideva e il broncio spariva.

Zio Mario sapeva perfettamente quante e quali banconote aveva nel portafogli e le conservava con la stessa cura di chi sorveglia un forziere di monete d’oro. Le prendeva e le controllava più volte al giorno, ma non poteva più vederle né poteva veramente contarle perché non ha mai imparato a farlo. Col passare degli anni assieme alla vista ha perso quasi completamente anche l’uso delle gambe, che teneva sempre ben composte seduto sulla sua sedia, caviglie incrociate, mani incrociate.

Ma c’è stato un tempo in cui con l’asino andava in campagna alle Castellane o andava solo, muro, muro fino alla piazza di Sant’Antonio. Mia madre mi racconta che ballava anche alle feste di paese. La musica gli è sempre piaciuta e ballava con quel suo modo lì, un po’ strano. Ballava, rideva e batteva le mani, al suo tempo.

Alle Castellane ci sono andata anche io qualche volta con la nonna, quando mamma risaliva a Milano da papà. A piedi con un fazzoletto sulla testa, con lei davanti che mi riparava dal sole e mi sembrava un gigante, con l’andatura che ciondolava a destra e sinistra. Camminavamo tanto fino che a un certo punto scendevamo per una stradina di terra secca, scoscesa, giù giù fino alla casetta. Non ricordo cosa andassimo a fare lì, io la seguivo e basta. Il grande albero che stava di fianco alla casa era il segnale che eravamo arrivati. Ricordo ancora la paura che mi presi quando una volta, aprendo la porta, una grande civetta ci volò addosso, liberandosi, mentre noi entravamo al fresco di una piccola casa con un piccolo letto, l’immancabile immagine della Maria Vergine e un fornello da campeggio. Pranzavamo a uova fritte e tortano e mangiavamo fuori, in compagnia delle cicale e dell’estate.

Nonna Rosina che trovavo già vestita al mio risveglio e zio Mario pure, tutto lavato, pettinato, sbarbato, vestito di tutto punto, seduto sulla sua sedia di finta pelle. A colazione ci chiedeva cosa avremmo voluto mangiare per pranzo, mentre intanto già bolliva la salsa. Aspettava la vecchietta della ricotta fresca di pecora e le vicine per cavare i rascatèdd e non si faceva in tempo a chiacchierare con tutti che già s’era fatta l’una e si buttava la pasta. Pranzi ricchi e trasìte trasìte, tutti dentro a salutare cumma Rusina che aveva una parola per tutti e un sorriso pure. Un meraviglioso sorriso a tre denti, gli ultimi rimasti in bocca. Vir vir: uno, due e tre (l’ultimo era in fondo). Nonna poi aspettava che finissimo di mangiare tutti noi per mettersi seduta, il resto era tutto un movimento avanti e indietro tra la cucina e il frigo, apri e chiudi e mangia figlia mia, mangia. Non bastava mai quello che preparava, poteva sempre essere qualcosa di più. Nonna ci onorava come fosse al cospetto di principi, re e regine. Eravamo il suo tesoro.

Mi sveglio nel letto dell’ultima camera, sdraiata sui due materassi di lana che mi sollevano di quasi un metro da terra, realizzo che le porte sono tutte chiuse, ma so che sono già tutti svegli. Mi alzo e con una spinta scendo giù, riesco ad abbassare il gancio della prima porta sollevandomi sulle punte e così entro nella camera della nonna. Vedo il grande letto già tutto teso e impacchettato nel copriletto rosa. Saluto il cuore di Gesù, la Madonna, San Rocco, Sant’Antonio, mi volto e saluto pure il nonno che mi sorride dall’alto nella sua stampa a grandezza naturale. Tiro con forza la seconda porta, perché il pavimento ha ceduto e se non si puntano i piedi, non si apre neanche se preghi tutti i santi che hai appena salutato. Ora, nella stanza di zio Mario le voci mi vengono incontro. Vedo il suo bastone appoggiato e appeso sull’appendiabiti il suo berretto testa rossa Ferrari. Penso che oggi non mi va di entrare in cucina e resto lì dietro l’ultima porta a sentirvi che state bisticciando, nonna avanti e indietro a pensare cosa fare per pranzo e stat’citt e zio che deve andare in bagno, mà, uè mà…

Una madre, un figlio e un’aria fresca che entra dalla porta di una casa sempre aperta, una casa, una vita che non potrà mai smettere di sapere di voi.